Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge si propone di sintetizzare in un articolato il più possibile compatto ed essenziale le riforme o le risposte normative che appaiono necessarie per contrastare e rovesciare quel progetto di multiforme precarizzazione dei rapporti di lavoro e di forte degrado degli standard di tutela, che ha caratterizzato l'ultimo decennio.
      La precarizzazione è stata «multiforme» perché ha colpito l'insieme del mondo del lavoro, e non soltanto questo o quel segmento, e perché a tale fine ha utilizzato diverse vie e strumenti. Così l'uso (e l'abuso) dei rapporti di lavoro parasubordinato e «atipico», al posto del rapporto di lavoro subordinato, è stato diretto principalmente contro i giovani, ai quali è stato precluso l'ottenimento di una appagante, o almeno sufficiente, condizione di vita e di lavoro.
      Contro i lavoratori del settore terziario è stata, d'altro canto, per lo più diretta la possibilità, quasi incontrollata, di apporre un termine di durata del rapporto di lavoro. Per altro verso, gli ancora recenti interventi legislativi di manomissione di un tradizionale quadro di garanzie, portati dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (anche se non solo da esso), hanno rimesso in discussione, ed esposto a gravissimi pericoli di precarizzazione, anche la condizione del «nucleo forte» dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato nei settori industriali e manifatturieri. Si tratta, infatti, di interventi che perseguono obiettivamente lo scopo di separare il lavoro dall'impresa che lo utilizza, così deresponsabilizzando l'imprenditore

 

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verso i lavoratori che producono per lui, ma non sono più «suoi»: il che è avvenuto attraverso la legittimazione (almeno tendenziale) di appalti di mano d'opera, di esternalizzazioni di comodo e fittizie di parti dell'apparato produttivo, di forme di somministrazione di lavoro a tempo determinato e indeterminato.
      Resta poi, diffusissima, e talvolta condotta agli estremi di un nuovo schiavismo, la forma peggiore di precarietà, quella costituita dal lavoro nero e clandestino, che si è dimostrata resistente e insensibile sia ai tentativi di repressione amministrativa e penale, sia a quelli di «bonifica» tramite legislazione premiale «di emersione». Ma restano anche, per converso, nella stessa disciplina del lavoro regolare, antiche e non risolte ingiustizie, illogicità e lacune che si traducono, in definitiva, in situazioni di precarietà e sottotutela. Si pensi alla palese insufficienza della tutela riservata ai dipendenti delle piccole imprese contro i licenziamenti ingiustificati, oppure alla elusione delle norme protettive condizionate alla sussistenza di un certo livello occupazionale, che viene normalmente realizzata con la suddivisione e l'articolazione dell'attività d'impresa, riferita formalmente a distinti soggetti giuridici, collegati, però, nell'assetto proprietario.
      La precarizzazione non è, infine, fenomeno che riguardi solo il lavoro privato, essendo, anzi, diffusissima, seppure per ragioni diverse, anche nel settore pubblico, dove può addirittura contare sull'esenzione delle principali norme restrittive o sanzionatorie ancora vigenti nel settore privato. Si pensi, ad esempio, all'inapplicabilità agli enti pubblici datori di lavoro della regola, in caso di irregolarità di un rapporto di lavoro a tempo determinato, della sua trasformazione a tempo indeterminato (articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) oppure alla permanenza, per le pubbliche amministrazioni, della legittimazione a stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa, ancorché non riconducibili ad un progetto specifico (articoli 1 e 61 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276).
      Sono, dunque, queste le coordinate essenziali per l'individuazione di una problematica che troppe volte è stata strumentalmente presentata come sfuggente e di difficilissimo governo: è, al contrario, perfettamente possibile disciplinarla adeguatamente, purché si abbia presente il disegno complessivo del mosaico e di quali tessere esso è composto. Ad ognuna di queste tessere (lavoro a termine, appalti, lavoro parasubordinato e suo superamento, lavoro «nero», eccetera) il presente progetto di legge dedica normalmente un solo e specifico articolo, proprio per sottolineare il ruolo essenziale, ma anche la valenza sinergica, di ogni istituto sottoposto a revisione normativa. Infine, quasi a simboleggiare e a riassumere la sua ispirazione complessiva, il progetto di legge propone una riscrittura, ampliata e aggiornata sulla base delle moderne tendenze dottrinali e giurisprudenziali in tema di danno risarcibile, della «norma-polmone» dell'articolo 2087 del codice civile, previsione generale di tutela della dignità e dell'integrità fisica e morale del lavoratore.
      L'argomento forse più importante, e certamente più controverso, della presente proposta di legge (articoli 1, 2 e 3) riguarda il superamento della distinzione tipologica, e dunque di disciplina giuridica degli effetti, tra il rapporto di lavoro subordinato e il cosiddetto «rapporto di lavoro parasubordinato» o, per meglio dire, le collaborazioni coordinate e continuative. La tematica è, non solo nel suo profilo teorico ma anche nella sua recente evoluzione storica, alquanto complessa, ma sarà qui sufficiente rammentarne i punti salienti. Le collaborazioni coordinate e continuative costituivano, ancora nella legge n. 533 del 1973, una qualificazione generica per rapporti tipici (ad esempio, di agenzia) anch'essi demandati alla giurisdizione del giudice del lavoro; poi, per effetto di una elaborazione dottrinale e giurisprudenziale criticabile, e sotto una potente spinta all'elusione delle norme protettive in materia di lavoro, sono passate
 

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a identificare, in contrapposto al rapporto di lavoro subordinato, un particolare rapporto di lavoro autonomo. Un rapporto caratterizzato, nello specifico, dalla continuità, dalla personalità e dalla sistematica funzionalizzazione alla organizzazione produttiva del committente, che è dunque difficilmente distinguibile, in concreto, dal rapporto di lavoro subordinato. Eppure, in quanto lavoro autonomo, esso è privo di tutte le tutele sia economiche che normative, legali e contrattuali collettive che lunghi anni e decenni di lotte e di conquiste sociali hanno introdotto e stratificato per il lavoro «subordinato», e in particolare, delle due fondamentali garanzie attinenti all'adeguatezza della retribuzione e alla protezione contro licenziamenti ingiustificati.
      È stata questa la principale via di fuga dal diritto del lavoro, una via davvero tutta italiana alla precarizzazione, che ha lasciato apparentemente intatto il corpus normativo di tutela del lavoro dipendente, ma che in realtà lo ha totalmente aggirato, «inventando» un rapporto similare, ed equivalente ai fini produttivi, ma nel quale il lavoratore risulta privo di tutele e soggetto allo strapotere della controparte. Né l'abuso è agevolmente reprimibile in via giudiziaria, tramite azioni di accertamento di simulazione, dal momento che la differenza ontologica tra rapporto di lavoro subordinato e collaborazione coordinata e continuativa consisterebbe essenzialmente nella diversa intensità della eterodirezione, ossia delle direttive e dei controlli del datore di lavoro: una differenza, cioè, che diviene impalpabile e sfuma in amplissime «zone grigie», con la progressiva prevalenza delle prestazioni intellettuali, con il maggiore tasso di scolarità e di professionalità, e dunque di discrezionalità tecnica richiesta dalla maggior parte delle adibizioni lavorative. È bastato, così, spessissimo un semplice «cambio di etichetta» al rapporto di lavoro per privare il lavoratore delle tutele legali e contrattuali, ed è qui importante tenere fermo che questa è stata una precarizzazione «per via di tipologia contrattuale» ossia con ricorso a un rapporto contrattuale teoricamente diverso da quello di lavoro subordinato.
      Questa «via alla precarizzazione» dunque, non va confusa con quella di cui si dirà più avanti (articolo 5) dell'apposizione al rapporto di lavoro di un termine, dovendo essere chiaro che una collaborazione coordinata e continuativa è precaria anche se a tempo indeterminato, in quanto sempre risolubile in ogni momento dal datore di lavoro, non applicandosi ad essa le leggi che difendono i lavoratori subordinati contro i licenziamenti arbitrari.
      Va però aggiunto, per fornire al lettore tutti gli elementi di comprensione delle innovazioni normative qui proposte, che la vicenda ora ricordata ha indotto una riflessione critica sulla stessa nozione giuridica di subordinazione accolta dalla nostra giurisprudenza, e una riflessione - va altresì aggiunto - la cui razionale conclusione è la proposta di un superamento della separazione tipologica dei rapporti e il riconoscimento di un «rapporto unico», sia pure con una possibile interna articolazione di modalità di esecuzione. Il fatto è che la nostra giurisprudenza prevalente fa ancora coincidere la subordinazione in senso giuridico con la eterodirezione in senso forte, ossia con la sottoposizione del lavoratore a «capillari direttive ed assidui controlli» del datore di lavoro e dei suoi funzionari, mentre non valorizza sufficientemente la dipendenza socio-economica, ossia quella «doppia alienità», dei mezzi di produzione e del risultato utile della prestazione, entrambi appartenenti al datore di lavoro, che contraddistingue la condizione del lavoratore, il quale, in cambio della retribuzione necessaria al sostentamento suo e della sua famiglia, aderisce ad un progetto e ad una organizzazione d'impresa altrui, e cioè di un datore di lavoro cui è esclusivamente destinata l'utilità della prestazione.
      È chiaro, allora, che se le direttive appaiono, nei singoli casi concreti, un po' meno vincolanti e cogenti, e i controlli un po' meno asfissianti, si può disinvoltamente affermare, applicando quell'erroneo criterio giurisprudenziale, di essere fuori, in quel caso, dal lavoro subordinato e -
 

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quel che più conta - dall'applicazione della legislazione protettiva del lavoro, economica e normativa. Ed è ciò che in questi anni è accaduto in danno di centinaia di migliaia di «collaboratori». Ma se il criterio fosse stato l'altro, ossia quello della doppia alienità e della dipendenza socio-economica, i collaboratori sarebbero stati a pieno diritto destinatari di quella legislazione protettiva, perché anche essi, sicuramente, vivevano e vivono questa condizione di dipendenza. È indiscutibile che i lavoratori abbiano sempre rivendicato maggiori retribuzioni, orari più brevi, ferie, stabilità del posto, qualificazione professionale perché dal loro lavoro in quell'impresa dipende la sussistenza loro e delle loro famiglie, e non certo per l'afflizione di dover sopportare un capufficio o un capofficina autoritario e invadente, ma è, allora, davvero sorprendente che la giurisprudenza e la legislazione continuino, per così dire, ad «appendere» lo scrigno prezioso delle leggi e delle normative di tutela «al gancio sbagliato», a quello cioè dell'eterodirezione, anziché a quello della dipendenza socio-economica.
      Si tratta di uno storico equivoco o scambio tra epifenomeno e sostanza, che poteva essere comprensibile all'alba dell'industrializzazione, quando, per lo più, eterodirezione in senso forte e dipendenza socio-economica erano congiunte, come nella figura emblematica dell'operaio addetto alla catena di montaggio, ma che non può più esserlo oggi, quando l'eterodirezione non costituisce ormai neanche una modalità efficiente di utilizzazione delle risorse umane, caratterizzate da alti gradi di istruzione, da capacità e flessibilità decisionale.
      L'insopportabilità della disparità di trattamento tra lavoratori subordinati (in senso tecnico tradizionale) e collaboratori, e la sua caratteristica furbesca e anche truffaldina sono, in progresso di tempo, apparse chiare ed evidenti a tutti gli osservatori (con l'eccezione, ovviamente, di quanti ne traggono lucro) e sono emerse due tendenze: la prima è quella «colmare» progressivamente le differenze di tutela tra lavoro subordinato e parasubordinato, ravvicinando le aliquote contributive, introducendo una qualche garanzia retributiva e una qualche forma di maggior controllo, ma senza incidere sulla sussistenza dei due diversi contratti; la seconda è quella, tradottasi nell'articolo 61 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, di vietare le collaborazioni coordinate e continuative a tempo indeterminato, ossia per esigenze ordinarie del committente (salvo eccezioni comunque cospicue: collaboratori pensionati oppure iscritti ad albi professionali, collaborazioni con pubbliche amministrazioni eccetera), ed ammettere solo quelle destinate alla realizzazione di un «progetto», come tale strutturalmente a tempo determinato. La prima soluzione perpetua o proietta su un tempo assai lungo, solo rendendola meno stridente, una disparità di trattamento ormai senza senso e giustificazione; la seconda, alla quale non può essere negato un certo iniziale decisionismo, oltre ad essere teoricamente discutibile, è stata ben presto vanificata da interpretazioni strumentali (e «gattopardesche») che hanno consentito o tentato di individuare «progetti» sempre e comunque in quasi tutte le fattispecie concrete di collaborazione.
      La proposta che qui viene avanzata è quella, invece, che riunifica il mondo del lavoro e supera la distinzione tra lavoro subordinato e collaborazione coordinata e continuativa (lavoro parasubordinato) tramite la modifica dell'articolo 2094 del codice civile (articolo 2 della presente proposta di legge) che pone al centro del rapporto di lavoro, ora unificato, la dipendenza socio-economica, ossia la condizione di «doppia alienità» di cui si è sopra detto. In tal modo, l'estensione a quelli che sono ora i collaboratori coordinati e continuativi (sia «a progetto» che a tempo indeterminato) dell'insieme delle loro normative contrattuali e legislative di protezione del lavoro diviene automatica. Si tratta di una proposta solo all'apparenza «rivoluzionaria», perché in realtà non fa che eliminare quel vecchio
 

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equivoco e rimettere le cose nella giusta e reale prospettiva.
      L'eterodirezione, a sua volta, scende di rango, e diviene, come è già di fatto, una semplice modalità eventuale di esecuzione del rapporto di lavoro. E per questo nel terzo comma dell'articolo 2094 del codice civile, come modificato dalla presente proposta di legge, è previsto che le parti possano derogare all'applicazione di quelle norme del codice civile che disciplinano vari aspetti e poteri della eterodirezione. Il lavoro dipendente, ovvero il «lavoro per conto altrui», potrà dunque indifferentemente essere eterodiretto (in via ordinaria) o autogestito (su accordo delle parti), ma il corpus delle norme protettive applicabili sarà unico. Solo in via transitoria, e per intuibili motivi di opportunità, è previsto, all'articolo 3, un forte sgravio contributivo per i rapporti di collaborazione che confluiranno automaticamente nella nuova tipologia unificata.
      È ovvio che le attuali collaborazioni «a progetto», essendo rapporti a termine (ove siano legittime nel caso concreto), confluiranno nel nuovo rapporto di lavoro unificato come rapporti a termine, ricorrendo i requisiti sostanziali che l'articolo 5 della presente proposta di legge prevede in generale per i contratti a termine. Lo stesso fenomeno di confluenza è previsto per le collaborazioni in corso con le pubbliche amministrazioni, ancorché in tale caso l'assunzione sia, però, condizionata al superamento di concorsi.
      Completa, poi, l'opera di «bonifica» del mercato del lavoro dalla presenza e dall'utilizzo abusivo di rapporti incongrui la previsione dell'articolo 4, la quale pone fine all'impiego, paradossale ma assai diffuso, e concretamente molto insidioso, del contratto di associazione in partecipazione, disciplinato dall'articolo 2549 del codice civile, la cui figura e causa tipica sono state stravolte onde trasformarlo da contratto di finanziamento di attività imprenditoriali in contratto di sfruttamento della forza-lavoro. Nel contratto di associazione in partecipazione, invero, l'associato è un finanziatore, mediante denaro o altro bene utile, dell'attività di impresa dell'«associante» della cui gestione non si occupa, pur avendo, in cambio del suo finanziamento, il diritto di una parte degli eventuali utili. Avere, allora, concepito l'idea che questo schema contrattuale possa essere piegato fino a configurare il lavoratore come associato che conferisce all'imprenditore la sua opera lavorativa altro non è che una aberrazione, ancorché supportata dalla giurisprudenza, finalizzata a sottrarre al lavoratore tutti i diritti della legislazione del lavoro e ad addossargli non pochi rischi. Comprensibilmente, dunque, l'articolo 4 della presente proposta di legge vieta di considerare la prestazione lavorativa legittimo conferimento nel contratto di associazione in partecipazione, riconducendo la fattispecie concreta al contratto di lavoro.
      La seconda via alla precarizzazione dei rapporti di lavoro è stata quella della cosiddetta «liberalizzazione dei rapporti a termine», attuata con l'emanazione del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, che ha sostituito la vecchia (e restrittiva) legge 18 aprile 1962, n. 230, e i provvedimenti successivi di parziale liberalizzazione.
      Da un punto di vista metodologico va ripetuta l'avvertenza di non identificare tout court precarizzazione dei rapporti e libertà di apposizione del termine, perché, come osservato, fuori dal campo del rapporto di lavoro subordinato, sono strutturalmente precari anche i rapporti a tempo indeterminato; per converso, la problematica dell'apposizione del termine riguarda oggi i rapporti di lavoro subordinato e domani, auspicabilmente il rapporto di lavoro unificato alle dipendenze o per conto di altri. Va subito detto che la proposta - contenuta nell'articolo 5 della presente proposta di legge - non si ripromette un ritorno al sistema delle causali astratte di legittima apposizione del termine su cui era imperniata la vecchia legge 18 aprile 1962, n. 230, sistema poi degenerato con la moltiplicazione e l'inflazione delle causali stesse per effetto di leggi e di contratti collettivi successivi.
      Assume, invece, quale principio, il controllo rigoroso del carattere effettivamente
 

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temporaneo dell'esigenza produttiva per la quale il contratto a termine viene stipulato e del nesso di causa ed effetto tra quella esigenza e l'apposizione del termine allo specifico contratto: ciò implica, anzitutto, un accentuato formalismo del contratto stipulato tra le parti (in ogni caso prima dell'inizio della prestazione lavorativa) nel cui testo quelle giustificazioni devono essere compiutamente espresse; e, in secondo luogo, l'attribuzione al datore di lavoro dell'onere della prova della loro ricorrenza in concreto, a pena, per ambedue i profili, di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.
      Il rigore di questa regolamentazione si giustifica, e non da oggi, con l'abuso che del contratto di lavoro a termine si fa particolarmente nel settore terziario, dove svolge, purtroppo, una funzione di intimidazione dei lavoratori i quali, ignorando che l'apposizione del termine non è, in realtà, «libera», sottostanno sovente a prevaricazioni e ad illeciti nella speranza della concessione di un rinnovo o della trasformazione a tempo indeterminato.
      Il controllo sulla legittima apposizione del termine non può, però, essere solo individuale, da parte dell'interessato (o, eventualmente, del giudice), ma deve essere anche collettivo; e invero il comma 3 dell'articolo 5 della proposta di legge prevede in favore dei sindacati sia un diritto di informazione sia la possibilità, anzitutto, di stabilire nel contratto collettivo la percentuale massima dei lavoratori assumibili, nella singola azienda, con rapporto a termine.
      Ed a proposito dell'azione sindacale in questa materia, la proposta di legge reintroduce la possibilità di prevedere nei contratti collettivi specifiche ipotesi di apponibilità del termine, purché si tratti sempre di esigenze oggettive e di attività temporanee (e non di caratteristiche soggettive dei lavoratori da assumere) e purché si tratti di contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati unitariamente dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Tali caratteristiche della fonte collettiva, dovrebbero rassicurare molti osservatori comprensibilmente critici sulla funzione svolta, in passato, in questa materia dalla contrattazione separata, conclusa da sindacati sospetti di connivenza con le controparti e ad un livello, territoriale o aziendale, dove potevano facilmente operare suggestioni clientelari. Stabilire, invece, che la funzione materialmente legislativa delegata dalla legge alla contrattazione collettiva (di cui il nostro ordinamento conosce e conoscerà molti esempi) è condizionata da un principio di rappresentatività massima, perché richiedente l'unanimità dei sindacati comparativamente più rappresentativi, costituisce una innovazione importante di riequilibrio nel sistema delle fonti formalmente e materialmente legislative. Se si accetta, come ormai l'ordinamento ha accettato, che norme di diritto obiettivo possono essere poste dall'autonomia collettiva, su delega «in bianco» del legislatore, occorre quanto meno giustificare questa evidente eccezione agli ordinari criteri costituzionali con una rappresentatività altissima nell'ambito categoriale.
      La previsione introdotta nella delicata materia dei contratti a termine può dunque fungere da prototipo per tutte le altre ipotesi nelle quali, da un lato, l'ordinamento non può rinunziare ad adeguare la normativa alla dinamica dei rapporti tra le parti sociali, mentre sussiste, dall'altro lato, il pericolo di accordi separati, ossia, dall'angolo visuale della giustificazione dell'efficacia generale della previsione che viene introdotta dalla norma, di abusi di rappresentanza. È, poi, noto che la problematica principale dei contratti a termine non è, forse, neanche quella della legittimità iniziale dell'apposizione del termine, quanto quella della ripetizione delle assunzioni a termine, ossia dei contratti «a catena». È questa la tipica condizione, esistenzialmente difficilissima, del precario permanente, il quale certamente ottiene da un datore di lavoro (tipicamente: in occasione di punte produttive stagionali) la stipula di più contratti a termine, ma senza certezza alcuna del prossimo contatto, e meno che mai di assunzione definitiva a tempo indeterminato. Il risultato
 

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può essere solo quello di una sudditanza psicologica verso l'impresa e di un profondo malessere esistenziale nell'impossibilità di formulare un progetto di vita. Va allora detto che la legislazione attuale, quella rappresentata del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, ha obiettivamente voluto che proprio questa sia la condizione dei lavoratori a termine, perché, da una parte, ha consentito la ripetibilità all'infinito dei contratti a termine, purché il datore di lavoro abbia l'avvertenza di far trascorrere venti giorni tra la fine del precedente e la stipula del successivo e, d'altra parte, ha abolito quel «diritto di precedenza» nelle nuove assunzioni che, almeno nelle lavorazioni stagionali, garantiva al lavoratore a termine un minimo di prospettiva futura.
      Si è però andati, in questa volontà di precarizzazione, oltre il segno, perché la fissazione di un limite temporale massimo complessivo di lavoro a tempo determinato alle dipendenze di uno stesso datore di lavoro, che il legislatore italiano ha omesso, è invece presupposta e imposta nella disciplina europea, ragione per la quale sul punto è comunque necessario legiferare, dopo le recenti pronunzie della Corte di giustizia delle Comunità europee.
      Riassumendo: il problema non è solo quello di limitare la possibilità di apposizione del termine alla ricorrenza di esigenze produttive davvero temporanee, e di perseguire gli abusi, ma anche quello di porre un limite alla ripetibilità, per la stessa persona, di contratti a termine, ancorché singolarmente legittimi, onde emanciparla dalla condizione di eterno precariato. A questo problema fornisce una risposta il comma 5 dell'articolo 5 della presente proposta di legge il quale prevede, anzitutto, il diritto del lavoratore a termine ad essere preferito in caso di nuove assunzioni sia a termine che a tempo indeterminato, e di passare, comunque, a tempo indeterminato ove sia stato occupato presso lo stesso datore di lavoro per più di diciotto mesi negli ultimi cinque anni. Di particolare rilievo è l'applicabilità della normativa del contratto a termine anche agli enti pubblici istituzionali, i quali dovranno, peraltro, indire procedure concorsuali anche per l'assunzione di lavoratori a termine, quale garanzia di idoneità professionale nel caso di trasformazioni, per ragioni sopravvenute, o per vizi originari del contratto, in rapporti a tempo indeterminato.
      La terza via o modalità di precarizzazione dei rapporti di lavoro è consistita nel permettere, ed anzi apertamente favorire, la separazione del lavoro dall'impresa, abrogando il principio fondamentale, contenuto nella legge 23 ottobre 1960, n. 1369, in base al quale doveva in ogni caso essere legalmente considerato datore di lavoro chi effettivamente utilizza la prestazione del lavoratore, e non già l'eventuale interposto formale.
      È del tutto agevole comprendere perché la separazione del lavoro dall'impresa comporti per il lavoratore che ne sia vittima una reale e profonda precarizzazione del suo rapporto: perché se il datore di lavoro che lo ha assunto non è quello che effettivamente utilizza la sua prestazione e ne trae utilità, ogni dialettica individuale e collettiva con il datore di lavoro (formale) è solo apparente, giacché tutto il potere decisionale in ordine al rapporto e le valutazioni di convenienza appartengono ad un terzo soggetto. Ne resta parimenti svuotata la responsabilità datoriale, per essere il datore di lavoro formale lui stesso un semplice strumento, di cui l'effettivo «dominus» può, in ogni momento, decidere di non servirsi più, abbandonandolo - con i lavoratori da lui formalmente dipendenti - al suo destino.
      L'aver tracciato e reso ampiamente percorribile questa strada è stata, probabilmente, la più grave colpa del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, non soltanto dal punto di vista dei lavoratori, ma anche da quello della crescita tecnologica e della capacità concorrenziale delle imprese, incentivate a perseguire, con ogni mezzo, risparmi sul costo del lavoro, conseguenti alla compressione di diritti, anziché maggiore produttività attraverso investimenti e riqualificazione produttiva. L'alternativa alla decisione di investimento in un reparto produttivo può, ad esempio,
 

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essere, nel breve periodo, quella di cederlo, insieme ai rapporti dei lavoratori ad esso addetti, a un appaltatore, che pagando meno i lavoratori e peggiorandone il trattamento sotto ogni aspetto potrà rifornire il committente, a costi minori, degli stessi prodotti che prima questi produceva direttamente. Nulla impedisce, anzi, per chiudere il cerchio del deteriore espediente, che l'«appaltatore» in parola sia, in realtà, un mero prestanome o una società appartenente allo stesso committente. Ma si tratta, appunto, di espedienti di corto respiro che non risolvono certo i problemi veri di competitività, creando, invece, gravi danni sociali.
      Va, dunque, osservato, scendendo ora ad una illustrazione più analitica, che la separazione del lavoro dall'impresa è veicolata, nell'attuale ordinamento, da tre istituti o nuclei normativi rappresentati, rispettivamente, dalla somministrazione di lavoro da parte di agenzie specializzate, dall'appalto di opere e di servizi e dal trasferimento di ramo d'azienda, discipline che il presente progetto di legge agli articoli 6, 7 e 8, modifica profondamente, mutandone del tutto il contenuto e il significato.
      La somministrazione di manodopera è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 24 giugno 1997, n. 196, come «lavoro interinale», e suscitò non poco allarme in chi vi scorgeva un primo pericoloso vulnus al principio di corrispondenza tra datorialità e utilizzo effettivo della prestazione stabilito dall'articolo 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369. Prevalse la tesi, non priva di supporti testuali, secondo cui si trattava solo di una parziale e controllata eccezione, in quanto le agenzie di lavoro interinale operavano, realizzando un profitto nel commercio di lavoro, ma svolgevano comunque un ruolo utile nel mercato del lavoro, quello cioè di consentire agli imprenditori, che ne necessitavano per esigenze temporanee, di procurarsi personale già qualificato e addestrato che ben difficilmente avrebbero potuto reperire e selezionare direttamente.
      Si è trattato di una giustificazione non troppo convincente, perché altro è la mediazione, anche privata, nella conclusione dei rapporti di lavoro, altro l'interposizione, ossia l'intestazione del rapporto all'intermediario (con percezione non di un compenso di mediazione una tantum ma di una percentuale continuativa), che rende tra loro estranei chi presta lavoro e chi effettivamente lo utilizza; ma sono stati, poi, gli sviluppi successivi ad inverare i timori peggiori.
      Intanto la possibilità di ricorso al lavoro interinale (o somministrazione di mano d'opera) è diventata amplissima, sia per riflesso della «liberalizzazione» dei rapporti a termine, sia ad opera di una contrattazione collettiva poco avveduta; ma poi, con l'entrata in vigore degli articoli 20 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che ha ridisciplinato la materia consentendo anche la somministrazione di manodopera a tempo indeterminato, la funzione politico-giuridica e la valenza ideologica dell'istituto sono divenute evidenti.
      Il vero «fascino» della somministrazione non è dato né da un risparmio sul costo del lavoro (il lavoro somministrato, almeno secondo la legge, dovrebbe costare di più di quello diretto), né da una facilitazione nel reperimento di risorse umane qualificate, bensì dal fatto di esercitare sul lavoratore, che la dipendenza formale da altri rende strutturalmente precario nell'azienda in cui è utilizzato, uno specifico preponderante potere sociale, mantenendolo in uno stato di soggezione ancora più grave di quello di un normale lavoratore a termine. Il concreto utilizzo che molte imprese hanno fatto delle agenzie di lavoro interinale in questi anni dimostra l'esattezza di queste valutazioni, all'apparenza un po' troppo colpevolizzanti: il fatto è che spessissimo le imprese si sono rivolte alle agenzie di lavoro interinale non già per conoscere lavoratori qualificati ma, all'inverso, dopo averli direttamente conosciuti, selezionati e riscontrati idonei, perché le agenzie li assumessero come lavoratori interinali e li riavviassero, poi, presso le stesse imprese «in missione»
 

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interinale. Ed è stato frequente il caso di lavoratori che hanno così inanellato missioni su missioni restando per anni presso la stessa azienda utilizzatrice, ma sempre in condizione precaria.
      Questo uso «rovesciato» dell'agenzia di lavoro interinale (o di somministrazione di mano d'opera) fa venire meno ogni giustificazione alla loro attività, che si riduce, allora, a mera interposizione parassitaria a fini di elusione di norme di tutela (ad esempio, quelle in tema di licenziamento) previste da leggi o da contratti collettivi. A questa diffusissima fattispecie potrebbe forse applicarsi la norma dell'articolo 28 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, («interposizione fraudolenta»), la quale, tuttavia, espressamente prevede solo una sanzione pecuniaria amministrativa. Si tratta, invece, di ricondurre l'attività delle agenzie di somministrazione alla loro ratio giustificativa originale, ed a ciò provvede l'articolo 6 della presente proposta di legge, il quale, in primo luogo, abolisce la possibilità di somministrazione a tempo indeterminato, in secondo luogo, consente la somministrazione a tempo determinato solo nei casi in cui sarebbe possibile la stipula di un contratto a termine diretto e, in terzo luogo, stabilisce la nullità del contratto di lavoro somministrato tra agenzia e lavoratore (per mancanza, in concreto, della causa negoziale) quando esso consegua ad una previa intesa assuntiva tra il lavoratore e l'imprenditore utilizzatore, che diviene, allora, a tutti gli effetti, datore di lavoro.
      La disciplina degli appalti, cui è dedicato l'articolo 7 della presente proposta di legge, costituisce, però, il problema centrale, in quanto affronta lo strumento con cui il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, ha cercato di realizzare la separazione del lavoro dall'impresa, cancellando la legge n. 1369 del 1960 e consumando, così, una sorta di attentato all'ordine pubblico del lavoro.
      La legge 23 ottobre 1960, n. 1369, invero, conteneva due nuclei normativi di grande importanza, rispettivamente all'articolo 1 e all'articolo 3: quello (articolo 1) che vietava l'appalto nel quale l'appaltatore si limitasse a mettere a disposizione del committente dei lavoratori da lui assunti (nel qual caso i lavoratori dovevano essere considerati a tutti gli effetti dipendenti del committente) e quello (articolo 3) che introduceva nel caso di appalti veri, nei quali l'appaltatore usava mezzi e organizzazione propri, e tuttavia interni al ciclo produttivo dell'impresa del committente, una responsabilità solidale tra committente ed appaltatore, perché i dipendenti del secondo godessero di un trattamento non inferiore a quello dei dipendenti del primo.
      Va sottolineato che doveva considerarsi appalto vietato, in quanto di mera manodopera, ai sensi dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, anche quello in cui l'appaltatore coordinasse e dirigesse personalmente il lavoro dei suoi dipendenti all'interno o per l'organizzazione produttiva del committente, e comunque nell'interesse di quest'ultimo, tanto che, secondo la giurisprudenza, poteva in tale caso aspirare lui stesso all'assunzione presso il committente in qualità di capo-squadra.
      Quanto alla regola fissata nell'articolo 3 della medesima legge, era evidente la sua funzione di selezione automatica tra appalti interni giustificati da necessità di specializzazione produttiva e tecnica, e appalti interni finalizzati invece al mero risparmio di costi in danno dei dipendenti dell'appaltatore: proprio perché l'articolo 3 imponeva parità di trattamento economico-normativo tra dipendenti dell'appaltatore interno e dipendenti del committente, ne conseguiva che solo i primi appalti, quelli teoricamente giustificati, avevano ragione d'essere in concreto stipulati.
      Ebbene, l'articolo 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, ha in primo luogo sicuramente abolito la norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, così creando una situazione criminogena (o quasi), aprendo la via all'affidamento di appalti interni al ribasso, verso i quali il committente ha ora tutto l'interesse, con pericolosa e crescente compressione delle condizioni economiche,
 

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normative e di sicurezza dei lavoratori. In secondo luogo, seppure tra incertezze e oscurità espressive, ha introdotto il concetto di una liceità dell'appalto anche di mera manodopera, alla sola condizione che l'appaltatore diriga personalmente, o comunque direttamente attraverso suoi delegati, il lavoro dei dipendenti. Questa sarebbe poi, in definitiva, l'unica differenza strutturale tra appalto (di sola manodopera) e somministrazione di lavoro, nel senso che nella somministrazione la direzione del lavoro è esercitata dall'utilizzatore e nell'appalto di servizi consistenti in sola manodopera la direzione sarebbe esercitata invece dall'appaltatore. Ma le differenze di effetti nel trattamento del lavoratore sarebbero notevolissime anzitutto perché per la somministrazione il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, all'articolo 23, comma 1, fissa ancora un principio di parità di trattamento con i dipendenti diretti dell'utilizzatore, che invece - come detto - è stato cancellato per l'appalto. Da un punto di vista più generale, poi, mentre la costituzione di un'agenzia di somministrazione comporta la dimostrazione di una piena solvibilità e di una irreprensibile condotta degli amministratori, qualunque soggetto, anche di dubbia fama e scarse risorse, può improvvisarsi appaltatore di servizi (consistenti in sola manodopera).
      È un vero e proprio caporalato quello che l'articolo 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, ha inteso legittimare, almeno secondo le interpretazioni che vengono accreditate anche da studiosi ed organi di stampa di parte datoriale, che insistono, insidiosamente, sulla «smaterializzazione» dell'economia e della produzione per nobilitare quella prassi di sfruttamento.
      L'articolo 7 della presente proposta di legge restaura pienamente, aggiornandoli, i princìpi e le regole della legge n. 1369 del 1960, reintroducendo, anzitutto, il fondamentale canone di parità di trattamento tra i dipendenti del committente e quelli dell'appaltatore, confermando, in proposito, la responsabilità solidale tra questi ultimi, e sancendo, poi, senza ambiguità, l'illegittimità di un appalto di servizi di mera manodopera, ancorché quest'ultima sia organizzata e diretta, nell'esecuzione delle prestazioni, direttamente dall'appaltatore o da un suo delegato.
      La presente proposta di legge, tuttavia, tiene conto, nel limite del razionale e all'insegna della prudenza, della ricorrente osservazione secondo cui, negli oltre quaranta anni trascorsi dall'entrata in vigore della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, sono nate e si sono sviluppate attività di consulenza altamente qualificate, che si traducono in appalti aventi per contenuto prestazioni lavorative solo intellettuali che trasmettono al committente un know-how che egli non potrebbe procurarsi direttamente. Viene, dunque, previsto, in chiusura del comma 2 dell'articolo 7 della presente proposta di legge, che possano essere individuati con contratti collettivi sottoscritti unitariamente dai sindacati comparativamente più rappresentativi, specifici casi di appalti di servizi per attività di alta specializzazione, aventi ad oggetto prestazioni di lavoro intellettuale, purché si tratti di attività non inserite stabilmente nel ciclo produttivo dell'impresa. Infine, viene confermata la piena applicabilità anche alle società cooperative del divieto di assumere appalti di manodopera e delle altre norme di tutela.
      Il terzo nucleo normativo, che consente di precarizzare il lavoro separandolo dall'impresa per conto della quale è effettivamente prestato, è costituito, nell'ordinamento attuale, dall'articolo 32 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che ha modificato la norma dell'articolo 2112 del codice civile in tema di trasferimento di azienda o di ramo di azienda, così da trasformarla da norma protettiva dei lavoratori in un insidioso e pericoloso strumento per sottrarre loro sicurezza e stabilità dell'impiego e per ridurre, talvolta drasticamente, trattamenti economici e normativi. È noto che, ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile, in caso di cessione dell'azienda o di un suo ramo, i rapporti di lavoro dei dipendenti addetti passano automaticamente al cessionario, e ai lavoratori
 

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trasferiti si applicano immediatamente i contratti collettivi, nazionali e aziendali, applicati dal cessionario, sempre che esistano, perché in caso contrario continuano ad applicarsi, ma solo fino alla data di scadenza, quelli già vigenti presso il cedente. Si può parlare, allora, per i lavoratori di casi di trasferimento d'azienda «in perdita».
      Il punto è che questo «passaggio» dei rapporti al cessionario è automatico ed avviene senza necessità di consenso da parte dei lavoratori, sicché è bastato al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, moltiplicare le ipotesi di applicabilità dell'articolo 2112 del codice civile, consentendo a cedente e al cessionario di plasmare a loro piacimento un «ramo» di azienda, per moltiplicare anche le ipotesi di passaggio «in perdita» cioè verso un cessionario che applica contratti nazionali e aziendali peggiori o non ne applica alcuno. La moltiplicazione delle ipotesi di applicazione dell'articolo 2112 del codice civile è avvenuta con il mezzo di considerare «ramo d'azienda» trasferito qualsiasi compendio di beni e di rapporti di lavorativi che, proprio in vista del trasferimento, cedente e cessionario decidono di considerare «ramo d'azienda», ancorché precedentemente privo di autonoma funzionalità economico-produttiva. Il comma 2 dell'articolo 32 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che ha introdotto l'ultimo comma dell'articolo 2112 del codice civile, rende, infine, palese lo scopo di tale modifica e il «consiglio» davvero perfido che gli «ideatori» del decreto legislativo hanno dato agli imprenditori desiderosi di abbassare sostanzialmente, a fini di risparmio sui costi, il trattamento economico e normativo dei loro dipendenti. Il «consiglio», cioè, di «scorporare» una parte dell'azienda, individuata al momento, cedendola ad un cessionario («di fiducia») che assuma anche l'appalto di fornitura dei beni o dei semilavorati prima direttamente prodotti, ma li fornisca a prezzi inferiori, in virtù del peggior trattamento che egli può praticare ai lavoratori forzosamente trasferiti alle sue dipendenze. Con l'aggiunta, però, che il più delle volte questo «appaltatore di fiducia» sarà una società di capitali costituita allo scopo dallo stesso cessionario.
      Il disposto dell'articolo 8 della presente proposta di legge sventa queste deteriori manovre stabilendo il nuovo principio di mantenimento dei diritti ovvero dei trattamenti acquisiti presso il cedente, se migliori rispetto a quelli praticati dal cessionario, colmando così una lacuna comunque esistente anche nel disposto originario dell'articolo 2112 del codice civile. Impedisce, poi, l'artificiosa costituzione ad hoc di rami d'azienda da trasferire, ristabilendo il principio che l'autonomia funzionale del ramo d'azienda deve essere preesistente al trasferimento perché «scattino» gli effetti dell'articolo 2112 del codice civile. Infine, perché la cessione del ramo d'azienda a un cessionario che diviene appaltatore non possa costituire, come è anche accaduto, una criptica manovra di licenziamento collettivo, con la quale prima si esternalizza il ramo d'azienda che si vuole dismettere e in seguito si mette in liquidazione la società cessionaria e appaltatrice presso cui sono passati in forza i lavoratori, viene previsto dal medesimo articolo 8 il diritto di questi lavoratori ad essere riassunti dal cedente in caso di cessazione dell'appalto.
      Innovativa ma destinata a risolvere un vecchio, arduo problema è poi la disposizione dell'articolo 9 della presente proposta di legge, riguardante il lavoro prestato nel gruppo di imprese, tra loro collegate perché riconducibili ad un unico assetto proprietario. La suddivisione di un'attività di impresa sostanzialmente unitaria tra soggetti imprenditoriali (normalmente costituiti in forma societaria) giuridicamente autonomi costituisce una ben nota modalità di elusione di importantissime normative di tutela del lavoro, condizionate però dalla sussistenza di un certo livello occupazionale: il caso simbolo è quello della tutela di stabilità reale prevista dall'articolo 18 della legge n. 300 del 1970, il cosiddetto «Statuto dei lavoratori», che si applica ad imprese ed unità produttive con
 

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più di 15 addetti, ma non meno importante è, con riferimento al medesimo livello occupazionale, il diritto di creare rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ai sensi dello articolo 19 dello stesso Statuto. Dunque in un'impresa che conti, ad esempio, 28 dipendenti, si applica la tutela di stabilità reale contro i licenziamenti ingiustificati e si può costituire la RSA, ma se quell'impresa si divide in due diverse società, di 14 addetti seppur riconducibili alla stessa proprietà, in nessuna delle due i lavoratori possono più fruire di quei diritti.
      La giurisprudenza ha affrontato il problema in modo volenteroso, ma con strumenti concettuali inadeguati, ammettendo che si possano «sommare» gli organici delle diverse società collegate ai fini dell'applicazione di quelle norme di tutela quando la suddivisione risulti attuata strumentalmente, proprio a fini elusivi, ma mantenendo una unitarietà di organizzazione, caratterizzata, in particolare, dall'utilizzo promiscuo dei lavoratori da parte delle diverse imprese del gruppo. In questa maniera la giurisprudenza è riuscita a controllare solo una piccola parte del fenomeno, ponendosi autolimitazioni incongrue. Non è infatti necessario andare alla ricerca di un dolo datoriale, né di un materiale impiego promiscuo dei lavoratori, perché non si tratta in realtà di ragionare in termini di frode alla legge o di simulazione, ma solo di comprendere che certe norme di tutela ben possono fare riferimento alle caratteristiche di un'impresa intesa come attività, invece che di un imprenditore. Impresa e imprenditore sono concetti diversi: la prima è un'attività, il secondo è un soggetto, e non è certo cosa nuova che l'ordinamento, in presenza di un'attività di impresa che viene esercitata «da» ovvero «tramite» più soggetti, faccia riferimento alla prima e non ai secondi. Si pensi al commissariamento straordinario di tutte le imprese appartenenti ad un gruppo, anche se solo per una o per alcune di esse ricorrono certi indici di crisi o di insolvenza. Non è, dunque, né giuridicamente né logicamente incongruo che normative la cui applicabilità sia giustificata dalla rilevanza quantitativa, dalla ricchezza, dalla complessità dell'iniziativa imprenditoriale, facciano riferimento alle dimensioni occupazionali di quella iniziativa nel suo complesso anziché dei singoli soggetti imprenditoriali che ad essa partecipano. È quanto stabilisce, allora, l'articolo 9 della presente proposta di legge, che non è da intendere come norma «antifrodatoria» in senso proprio e specifico, ma piuttosto come una norma organica, che affrontando e disciplinando il problema da un punto di vista più alto e più ampio evita frodi e anomalie.
      L'articolo 9 stabilisce, dunque, in specifico che, ai fini del computo del numero dei dipendenti richiesto per l'applicabilità di norme di legge e di contratto collettivo, occorre fare riferimento non solo ai dipendenti formalmente assunti dal soggetto imprenditoriale cui la norma va applicata, ma (prescindendo dalle distinte personalità giuridiche), ove quel soggetto faccia parte di un «gruppo», al livello occupazionale complessivo del gruppo. Il concetto di appartenenza ad un gruppo è specificato dallo stesso articolo 9, riprendendo una definizione già accolta nel nostro ordinamento da molti anni con il disposto del comma 4-bis dell'articolo 8 della legge 23 luglio 1991, n. 223. Lo scopo specifico di questa norma è quello di impedire che i benefìci accordati alle imprese che assumono lavoratori in mobilità possano essere fruiti da un'impresa facente parte di un gruppo rispetto ai lavoratori licenziati da un'impresa dello stesso gruppo, così realizzando, a livello di gruppo, una facile speculazione. Si tratta, dunque, di una norma ispirata proprio al concetto sostanzialistico dell'iniziativa imprenditoriale complessiva, e per questo si presta perfettamente ad essere qui ripresa e generalizzata. Si considera invero come appartenente allo stesso gruppo l'impresa la quale «presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assume, ovvero risulta con quest'ultima in rapporto di collegamento e controllo».
 

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      La nozione comprende, dunque, quella risultante dalla normativa commercialistica in tema di società controllate e collegate (articolo 2359 del codice civile e decreto legislativo 2 aprile 2002, n. 74), ma è in un certo senso più comprensiva («assetti proprietari sostanzialmente coincidenti»), abbracciando anche l'ipotesi di imprese «parallele», ossia riconducibili alla stessa proprietà, ma senza partecipazione societaria dell'una al capitale dell'altra. Si pensi al caso, molto diffuso, della riorganizzazione aziendale attuata (a fini sostanziali di elusione normativa) suddividendo l'azienda in due, una di soli operai ed una di soli impiegati, costituite in due diverse società a responsabilità limitata, di cui la seconda diviene appaltatrice di servizi amministrativi alla prima. È ovvio, infine, che questa riforma riguardante direttamente il regime giuridico di rapporti di lavoro individuali avrà, di fatto, positivi riflessi anche sul piano collettivo, con impulso alla generalizzazione di una contrattazione collettiva di gruppo.
      Nel comma 2 dell'articolo 9 della presente proposta di legge è contemplata l'ipotesi che il lavoratore abbia non soltanto lavorato in un'impresa di un gruppo, ma, promiscuamente, per più imprese: in tale caso si determina un effetto aggiuntivo rispetto a quello previsto dal comma 1 (per il quale, si ripete, basta l'appartenenza delle imprese allo stesso gruppo e non è necessaria anche l'adibizione lavorativa promiscua), ossia la totale corresponsabilità delle imprese per cui il lavoratore abbia prestato l'opera per il soddisfacimento di ogni suo credito e diritto, secondo un criterio di «codatorialità», implicante solidarietà passiva nelle obbligazioni.
      Che la condizione di lavoro irregolare o, come comunemente si dice, «in nero» coincida con il massimo della precarietà è proposizione troppo evidente per dover essere illustrata o dimostrata, e, d'altro canto, la deprecazione del fenomeno è universale. Ad un così compatto e totale rigetto politico ed etico non hanno, però, fatto seguito iniziative efficaci, pur non essendo certamente mancate, da un lato, norme repressive, di natura amministrativa e penale, e dall'altro norme «premiali» per i datori di lavoro che accettassero di «emergere» dall'irregolarità. La ragione di fondo della scarsa efficacia di queste misure è probabilmente da identificare nella forzata omertà tra le vittime del lavoro nero ed i loro sfruttatori che non può, obiettivamente, essere supplita dall'iniziativa degli apparati statuali, per insufficienza di mezzi e per mancanza di radicamento nell'ambiente socio-economico. D'altro canto, che il lavoratore «in nero» non abbia mai, o quasi mai, la forza di ribellarsi e di denunziare il suo sfruttatore è del tutto comprensibile nelle condizioni sociali ed economiche note. Si tratta, dunque, di stabilire una legittimazione alternativa al ricorso all'autorità giudiziaria, in favore di soggetti istituzionalmente interessati alla regolarità del mercato del lavoro dell'interesse collettivo dei lavoratori, quali sono, per eccellenza, le organizzazioni sindacali, affinché esse possano, autonomamente e con la loro capacità d'indagine e di controllo del territorio, «bonificarlo» denunziando i casi di «lavoro nero». La soluzione adottata dall'articolo 10 della presente proposta di legge è, dunque, tanto semplice quanto efficace: sancire espressamente che il datore di lavoro il quale coltiva rapporti di lavoro «nero», ossia non regolarizzato, commette comportamento antisindacale, ai sensi dell'articolo 28 della citata legge 20 maggio 1970, n. 300. Ciò consentirà al sindacato di essere protagonista dell'opera di «bonifica», contando su uno strumento processuale di provata efficienza, quale è il procedimento previsto dal citato articolo 28, e - va aggiunto - su un fondamento di ratio giuridica ineccepibile, perché è indubbio che non regolarizzare i lavoratori costituisce un gravissimo impedimento all'attività sindacale, non potendo, evidentemente, il sindacato avvicinare e organizzare lavoratori «invisibili». Dunque, il giudice del lavoro adìto in sede di ricorso ai sensi dell'articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, dalla sola organizzazione sindacale, senza necessità di costituzione
 

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in giudizio dei lavoratori, potrà ordinare al datore di lavoro (con ordine la cui inosservanza è - come si sa - sanzionata penalmente) di regolarizzare i lavoratori sia per il futuro, sia per il passato. Il disposto dell'articolo 10 della presente proposta di legge, peraltro, si preoccupa di «venire incontro» al datore di lavoro che accetti la situazione (rinunziando a proporre gravame contro il decreto di cui al medesimo articolo 28) e di intrattenere per il futuro normali rapporti sindacali, consentendogli di adempiere all'ordine giudiziario anche attraverso la stipula con il sindacato denunziante di un «contratto di emersione», sicuramente vantaggioso rispetto alla pura e semplice regolazione coatta. È evidente la positività di una tale soluzione anche per l'azione sindacale, giacché continuare a gestire il rapporto con i lavoratori e con la stessa controparte dopo il «trauma» della regolarizzazione forzata è quasi altrettanto importante.
      La proposta di legge conclude il suo arco tematico con due norme, quelle degli articoli 11 e 12, che sono accomunate da una riconsiderazione della teorica del danno risarcibile, applicata ai rapporti di lavoro. È innegabile che all'epoca in cui furono introdotte le principali norme riguardanti la tutela giuridica dei lavoratori (in particolare con la legge n. 604 del 1966 e con gli articoli 18 e 13 della legge n. 300 del 1970) quella teorica era del tutto stagnante e la risarcibilità dei danni extrapatrimoniali era limitata all'ipotesi di danno morale da fattispecie di reato. Peggio ancora, almeno con riguardo al disposto dell'articolo 8 della legge n. 604 del 1966, il moderato indennizzo forfetario per il licenziamento ingiustificato fu, in modo pressoché unanime, inteso come rigorosamente racchiuso tra il minimo di 5 ed il massimo di 12 mensilità (da 2,5 a 6 mensilità dopo la modifica apportata dall'articolo 2 della legge n. 108 del 1990), ovvero misure modeste, per non dire infime, e anche sperequate in relazione alla reale dimensione che il danno da licenziamento può assumere in diverse aree territoriali e socio-economiche: pochi mesi di disoccupazione, probabilmente, in un'area del nord-est, ma un danno gravissimo e duraturo in un'area arretrata del meridione.
      La norma di interpretazione autentica dell'articolo 11 della presente proposta di legge, che chiarisce come le misure forfetarie indicate dall'articolo 18 della legge n. 300 del 1970, e dall'articolo 8 della legge n. 604 del 1966 non impediscano la dimostrazione di maggiori danni patrimoniali ed extrapatrimoniali, riscatta, dunque, il diritto del lavoro da quella sorta di «minorità» nella quale l'opinione tradizionale, erronea (per questo si tratta di norma di interpretazione autentica) ma diffusissima, aveva confinato il danno risarcibile al lavoratore: sicuro nell'«an», ma proprio per questo (ingiustificatamente) molto modesto nel «quantum». Chiarire, pertanto, che al danno da licenziamento possano essere applicati tutti i canoni e i criteri elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza in questi anni di riconsiderazione delle conseguenze dell'illecito civile anche contrattuale (in tema, ad esempio, di danno esistenziale) è tutt'altro che inutile ed apre, anzi, notevolissimi spazi e possibilità di tutela.
      L'articolo 12 della presente proposta di legge modifica la normativa dell'articolo 2087 del codice civile le cui grandi potenzialità, dopo una quiescenza durata per decenni, sono state scoperte e valorizzate da una giurisprudenza un tempo d'avanguardia, ma ormai ben consolidata. L'articolo 2087 del codice civile, invero, è stato correttamente indicato come «norma-polmone», che stabilisce un obbligo generale di sicurezza a carico del datore di lavoro, ossia di rispetto dei diritti e degli interessi primari del lavoratore, ovvero della sua persona, intesa come persona fisica e come personalizzazione, comprendente, quest'ultima, la figura professionale, in sintonia con la giurisprudenza delle alte Corti che hanno indicato nell'attività professionale un mezzo di realizzazione della personalità. Il testo modificato dell'articolo 2087 del codice civile, da un lato, indica i diritti assoluti oggetto della protezione, dall'altro, la tipologia dei danni risarcibili, con
 

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specifica indicazione di quelli extrapatrimoniali, rimettendo la quantificazione di questi ultimi ad un giudizio equitativo, così implicitamente risolvendo in senso negativo la querelle sulla necessità di specifica prova non solo della lesione del diritto ma anche del danno, distinzione francamente incongrua nell'ipotesi di lesione di diritti assoluti della persona. Con questa modifica dell'articolo 2087 del codice civile potrebbe ben ritenersi assolta l'esigenza di emanare nel nostro ordinamento una legislazione in materia di mobbing.
      La proposta di legge si conclude con la pura e semplice abrogazione di norme del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, prevedenti istituti quali il contratto di inserimento, il contratto a chiamata, il contratto di lavoro ripartito e la certificazione dei rapporti, dei quali la pur breve esperienza di applicazione ha dimostrato la dannosità o, più spesso, la pura e semplice inutilità.
 

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